lunedì 12 dicembre 2011

CAPITOLO 18

BPOV

Due giorni passati a piangere e a compiangermi.
A chiedermi come avevo potuto negarmi a lui.
Due giorni passati a pensarlo a Los Angeles con la moglie.
A pensarlo con lei. Nella stessa stanza , nello stesso letto.
Rifiutandomi di uscire. Di mangiare. Incapace di dormire.
Ero una merda
Lui era distruttivo per me. Era tossico.
Jake, insieme a Rose, mi era stato accanto.  
Paziente, comprensivo.
Non volevo usarlo per dimenticare Edward, ma mi ritrovai a farlo.
Domenica sera mi invitò ad uscire con lui, senza doppi fini mi disse.
Mi portò in un nuovo locale. Bevemmo, chiacchierammo , ridemmo…. Bevemmo ancora, fino ad attenuare il dolore.
Per la prima volta da giorni mi sentii  rilassata, in qualche modo serena. Quando mi riaccompagnò a casa mi venne spontaneo salutarlo con un bacio. Jake ricambiò in modo passionale.
Non era il fuoco di Edward, era il calore di una giornata di primavera. Non bruciava ma bastava a scaldare.
Mi chiese se poteva venirmi a prendere lunedì per andare insieme al lavoro. Gli dissi di sì e lo feci a cuor leggero, in qualche modo serena.
A letto ripensai al mio primo incontro con Edward.
Pura lussuria.
Attrazione incontrollabile.
Lotta per il dominio.
Con Jake c’era rispetto, pazienza, calma, calore.
Chiusi gli occhi e finalmente mi addormentai.
Lunedì Jake venne a prendermi. Era raggiante. E il suo entusiasmo mi incoraggiò.
Arrivammo in ufficio con un leggero ritardo perché ci fermammo nel parcheggio per qualche minuto. Jake mi parlò, mi disse che comprendeva le mie difficoltà, che non si illudeva, ma era grato di questa opportunità.  
Non l’avrei rimpianta, disse.
Poi si avvicinò e mi baciò dolcemente e a lungo, mi ritrovai a ricambiare anche questa volta senza difficoltà.
Jake era un caldo porto sicuro.
Alla fine entrammo in ufficio.
Sentivo finalmente una nuova forza dentro di me.
Sentivo di poter affrontare Edward.
Non sapevo quello che mi aspettava.
Arrivai che era già nel suo ufficio.
Mi ero appena seduta alla mia postazione,  quando sentii l’interfono e la sua voce secca, nervosa.
“Swan. In ufficio da me. Subito”
Kate e Jessica mi guardarono tra lo stupito e l’interrogativo.
“Ma che  …”
Entrai.
“Signorina Swan, mi può cortesemente spiegare come accade che la pratica "Brokennutsl" non sia ancora pronta e definita sulla mia scrivania? Siamo forse troppo impegnate a farci sbattere da qualche collega, e non abbiamo la decenza di fare uno straccio di lavoro quantomeno accettabile?”
Rimasi a bocca aperta. Ma di cosa parlava? Parlava di sé?
“Signore, vede, l’unico ad avermi sbattuta in questo ufficio è stato lei. Forse non lo ricorda più. Certamente, in passato, questo ha rappresentato una piacevole distrazione, ma, come le ho già ampiamente comunicato venerdì, non accadrà più e dunque non dovrà preoccuparsi ancora per la qualità del mio lavoro!”
“Ma essendo la piccola sgualdrina che noi sappiamo che in effetti lei è …. Mi preoccupo eccome. Voglio questa pratica pronta e perfettamente definita per le 17.00 di questa sera. Può andare.”
Ma che cazzo stava succedendo? Come si permetteva? Che cosa …..
“Ma come diavolo si permette ….”
“Fuori” emise un ruggito.
Uscii sconvolta e confusa. Davvero non capivo. Era così arrabbiato per il mio rifiuto di venerdì? Non aveva capito quanta sofferenza avevo causato anche a me stessa?
Decisi di lasciare correre.
Ormai conoscevo Edward e i suoi fottuti sbalzi d’umore. Era meglio lasciare perdere.
Andai alla mia postazione e iniziai a lavorare sulla pratica.
Alla pausa pranzo arrivò Tanya. Entrò nel suo studio. Dopo 5 minuti uscirono abbracciati. Mi passarono accanto.
“Buon appetito signorina Swan” cinguettò Tanya.
Edward non mi rivolse la parola.
Al loro ritorno sorridevano. Lei aveva le sue mani ovunque. Lui di solito molto rigido e adisagio in momenti come quello, non batteva ciglio.
Bastardo.
Alle 17.00 lo chiamai all’interfono.
Mi aveva chiesto esplicitamente di consegnare il lavoro per le 17.00. E non era uscito credo. Ero stata tutto il pomeriggio alla mia postazione e non l'avevo visto passare.
Non rispose. Bussai. Non rispose. Entrai con cautela. Nessuno.
Ero preoccupata.
Ma forse se ne era andato mentre ero alla macchinetta del caffè chissà… meglio così.
Stavo per lasciare la pratica sulla scrivania, quando d’istinto, sentendo dei rumori sconnessi e improvvisi, mi nascosi nella cabina armadi che lo stronzo aveva nel suo studio.
Dalla saletta riunioni attigua ed interna sentii i rumori soffocati e frenetici .
Oh no. Oh no. Ti prego. No.
La porta era socchiusa, mi avvicinai.
I rumori confusi si definivano con maggior chiarezza mano a mano che mi avvicinavo. Inequivocabili.
Sentivo ansimare.
Sentivo i suoi grugniti.
Sentivo le sue parole soffocate.
Come la falena mortalmente attratta dalla fiamma, mi avvicinai fino a vedere la scena che si stava svolgendo dentro la saletta, attraverso il varco della porta socchiusa.
La schiena tesa di Edward.
I suoi pantaloni alle caviglie.
Una gamba di Tania in alto. Sopra la sua spalla nuda.L’altra avviluppata intorno alla sua vita.
Il suo tacco premuto contro il culo sodo .
I colpi secchi e lunghi.
Le parole dure, confuse a suoni primitivi.
Il loro piacere.
La loro intimità.
Ogni colpo una coltellata.
Emisi un grido sommesso e scappai.
Corsi a perdifiato. Raccolsi in fretta la mia borsa e la mia giacca e premetti il pulsante per chiamare l’ascensore, nervosamente. Le lacrime mi stavano salendo agli occhi.
“Cazzo vuoi arrivare fottuto ascensore… cazzo cazzo!”
Sentii altri rumori frenetici provenire dall’ufficio di Edward.
Sentii la grande porta di legno aprirsi.
Sentii la campanella dell’ascensore.
Mi ci buttai dentro. Premetti il pulsante per scendere.
Mi girai.
Sul suo volto l’orrore. Specchio del mio.
Tanya con un sorriso malevolo e il sopracciglio inarcato.
“Isabella!” urlò.
Le porte si chiusero.
Guidai senza meta per un tempo indefinito. La testa mi faceva male. Davanti agli occhi, confuse tra le lacrime, la loro immagine stampata a fuoco nel mio cervello
Il cellulare suonava
“Edward”.
Emisi un grido rabbioso.
“Bastardo!”
Mi fermai di fronte al nostro club. Il nostro club.
Entrai.
Ordinai un drink , poi un altro e un altro ancora.
Jordan il barista era preoccupato.
“Isabella starai male”
Gli risi in faccia
Il cellulare continuava a suonare.
“Edward” ….“Jake”…. “Edward” ….. “Rose” …. “Edward”…. “Edward”….
Ormai al limite della sopportazione, risposi.
“Che cazzo vuoi?”
“Isabella dove sei?”
“Ho. Detto. CHE. CAZZO. VUOI?”
“Isabella… non fare stronzate… dove sei…. Ti prego dimmelo”
“Tu, lurido porco bastardo. Tu. Non ti permettere mai più di dirmi cosa posso e non posso fare. NON. TI . PERMETTERE!”
“Isabella….”
“Non mi devi più chiamare, non mi devi più parlare, non mi devi più guardare, non mi devi nemmeno pensare… stronzo… sei morto… sei un fottuto cadavere per me…”
“Ti prego … devo parlarti…”
“Ma sei sordo o cosa? Torna a fottere tua moglie! Siete fatti l’uno per l’altra….”
“Isabella…”
“Volevi che vedessi vero? Volevi che capissi? Ho capito … adesso puoi lasciarmi in pace… ti prego lasciami in pace… E cercati una nuova assistente. Con me hai chiuso. Capito? Chiuso!”
La rabbia stava lasciando spazio al dolore lancinante, insopportabile.
Buttai giù il telefono e bevvi… e bevvi ancora fino a stordirmi fino a non sentire più nulla.
E poi il buio.

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